Le composizioni fotografiche di Chico De Luigi, con il loro silenzio incolore, non mi permettono la distrazione: chiedono un occhio di riguardo. Cosa mi fanno vedere col loro horror pleni? Certamente non impongono o propongono un senso evidente e definitivo. Esito allora a trattarle come paesaggi spogli – segni iconici o come pagine scritte – segni grafici.
1. Se sono paesaggi, non basta la vista, ci vuole una visita. Cerco allora un orientamento e lo trovo: nella maggior parte delle immagini c’è la traccia sgranata d’un percorso prospettico. Seguo le linee, le quali convergono, accennano verso un punto di fuga, che l’inglese chiama d’evanescenza, vanishing point. Ho già trovato questa classica struttura nelle foto di Ghirri – altrimenti colorate e chiassose – in cui l’occhio è condotto verso un punto sperduto nella nebbia padana. In Chicco cade forse sulla linea litorale tra spiaggia e mare o sulla linea dell’orizzonte, linee sempre mobili e sfuggenti al dispositivo prospettico. Mi accorgo allora che ho proiettato in questo paesaggio senza spigoli o contorni un senso e un riferimento. Forse ho accolto un suggerimento sommesso e una suggestione visuale. Ho immaginato, forse riconosciuto l’allusione o l’illusione di una spiaggia invernale, dove si sovrappongono, sotto un cielo scialbo, le sostanze simili ed opposte della sabbia e della neve. Superfici su cui si lasciano segni nomadi e tracce: appena accennate e sempre già cancellate. Un paesaggio virtuale e tenue, quasi insipido, che chiede un apprezzamento percettivo rarefatto. Avverto che l’assenza di sentore e sentire è soffusa; impregna sottilmente gli altri sensi e mantiene tutte le possibilità immaginabili di gusto e di colore.
Provo allora quel sentimento che attribuisco all’indole di chi ha preso e poi ripreso questi composti fotografici; un distacco senza esibizione, un ritegno non dimesso del carattere, un riserbo e discrezione nei rapporti umani. Paesaggio e osservatore provano una dissolvenza incrociata, quella che lo zen chiama wabi, la bellezza del disadorno. E ho la tentazione di comportarmi come lo spettatore di un disegno cinese che si incammina seguendo l’invito lieve delle linee e sparisce all’orizzonte della fotografia.
2. Bisogna assumere e variare i punti di vista per metterli in causa. Forse queste fotografie, soprattutto quelle prive dell’indicazione prospettica, sono da leggere come pagine e le macchie scure sono gli ideogrammi di una scrittura segreta di cui non so il senso, il significato e l’orientamento. (Se rigirarassi la foto, la scrittura, dall’alto verso il basso diventerebbe orientale?). Una frase sottile ma non esigua, discreta ma capace di discriminazione, esatta senza essere meticolosa. Chiede forse una lettura più aperta della mia per intuire altri gusti a venire. Io, per ora, vi leggo il lento, evasivo formarsi di un affetto, un sentimento d’assenza, distante dagli effetti speciali dei media – il frastuono e il kisch – ma anche dai piacerini lirici dell’intimità. Non è un sentire impersonale e indifferente, ma un’inclinazione a gustare ed approfondire, con sensibilità e distacco, la trasformazione silenziosa e sempre imperfetta di un soggetto e del suo mondo.
Mi accorgo di aver fatto – ma potevo fare altrimenti? – delle osservazioni, un genere discorsivo poco sistematico che a volte semina e spera che altri raccolga.
Fotografie stampate in copia unica nei formati 30×40, 18×24 e 13×18 cm.